RACCONTAMI L'UMBRIA

Ludus Assisi, il circolo virtuoso della musica antica tra scuola, artigianato e spettacolo.

Articolo partecipante sezione Turismo, Ambiente e Cultura Raccontami l'Umbria 2017

di Gianni Micheli

 

A volte occorre scendere in una cripta e, insieme, attraversare l’arco millenario della storia per ritrovare il contemporaneo. Scendere e di-scendere, per riscoprire l’oggi dell’artigianato e della scuola che si fa mestiere di vita e cultura. Gradino dopo gradino, secolo dopo secolo, è l’inchino che è necessario compiere, con il corpo accompagnato dalla metafora, per superare nel 2017 le infrastrutture della tecnologia e toccare con mano uno spazio abitato da un’umanità che, abbracciata ai propri antenati, non rinuncia a sporcarsi le mani con carta, legno e colla, trasformando doni naturali in imprese della cultura e dell’intelligenza.


Vivere l’esperienza di una così avvolgente immersione nell’antico, guida, preludio e futuro del quotidiano, è l’attimo di una felice scoperta, di un incontro che può trasformare la propria lettura della storia e il proprio personalissimo vissuto. Ed è quanto può capitare ad Assisi in una fredda giornata di gennaio. Fredda solo per chi non abbia resistito al piacere di assistere ad uno dei “Concerti di Natale” organizzati dalla collaborazione tra Museo Diocesano e Cripta di San Rufino, Associazione Ritmi e Accademia di Arti Antiche Resonars.

In scena martedì 3 gennaio 2017 era proprio l’Accademia Resonars nella riproposizione di un dramma liturgico medievale francese del XII secolo, Ludus Danielis. Opera articolata e suggestiva, precorritrice di un’opera lirica ancora da inventarsi, eseguita da Resonars per la prima volta ad Assisi e, in forma integrale, in una delle poche occasioni sul territorio nazionale, e tuttavia non unico spunto d’eccellenza del progetto. Al di là dei pregevoli contenuti artistici del concerto, ed oltre il trascorrere di una serata a braccetto con i figli dell’anno Mille, ciò che ha colpito il pubblico è l’affiatamento di un gruppo che è riuscito ad unire sul palcoscenico in pietra calcarea del Chiostro del Museo Diocesano della Cattedrale di San Rufino professionisti a studenti, artisti e artigiani, presente e futuro dell’imprenditoria e della cultura assisana e, in senso lato, umbra.


Il circolo virtuoso dell’Accademia Resonars inizia infatti dalla scuola ma passa dalla bottega per accedere, con professionalità, alla cripta e al teatro, con un’incursione festosa e coinvolgente di molti suoi protagonisti in una tra le manifestazioni più rilevanti di Assisi, il Calendimaggio, vera ricostruzione e trasmutazione storica e strutturale dell’intero borgo, la più antica, autentica e appassionate scuola per l’artigianato e la ricerca storica che Assisi possa vantare con la sua origine millenaria e le sessantatre edizioni moderne.

È proprio dal Calendimaggio che inizierò il racconto, attraverso l’esperienza diretta degli interpreti della suggestiva serata di inizio 2017 ad Assisi. A parlarne è Daniel Abeysekera, una delle voci del concerto. Così, con poche parole, Daniel ci racconta il Calendimaggio: «Il Calendimaggio è il 60/70% della vita di un assisano. È nel periodo del Calendimaggio, da metà marzo fino a dopo la festa dei primi di maggio che la città, con le sue mura, rivive. Rivive di assisani. È un aggregativo sociale in cui rivedere amici, incontrarsi, parlare della città».

Ed è ancora con il Calendimaggio che è iniziata l’attività dapprima ludica del liutaio per eccellenza di Assisi, Vincenzo Cipriani, oggi, da pensionato, spettatore ai concerti ma da sempre ideatore, ispiratore, sperimentatore e costruttore di molti degli strumenti musicali suonati dagli allievi e dai docenti dell’Accademia. Racconta Vincenzo: «All’inizio il Calendimaggio si eseguiva in costume medievale ma con chitarre e mandolini suonando romanze dell’Ottocento e dei primi del Novecento. È a seguito della ricerca filologica iniziata intorno agli anni ’70 che, quasi per gioco, ho iniziato a costruire i primi strumenti».


Quasi per gioco ha ancora il sorriso sulle labbra, Vincenzo, mentre racconta della nascente passione, dei corsi, del viaggio in Spagna per imparare il mestiere del liutaio e trasformarlo nella sua attività principale in un legame stretto con il Medioevo e i suoi strumenti: il liuto, la viella, la ribeca e il salterio. Senza rinunciare alla chitarra classica, il “suo” strumento.
«Del Calendimaggio ne faccio parte fin dalla prima edizione, dove cantavo nel coro – prosegue Vincenzo. – Dalla terza edizione sono passato nei Menestrelli, suonando la chitarra e il mandolino. La prima volta che ho suonato in piazza con uno strumento antico, il liuto, anche se non costruito da me, è stato nel 1978».
Vincenzo, a sua memoria, è stato il primo liutaio, in Umbria, ad occuparsi di strumenti medievali ma alla domanda se ha dato inizio a una “scuola” di liuteria risponde ancora con un sorriso. Dar vita a questi strumenti, in un mercato di nicchia in cui certo non ci si può arricchire, non è accattivante. Sono strumenti che richiedono pazienza, ricerca e viaggi continui, reali, cercando miniature e sculture. «Il cammino di Santiago? L’ho fatto due volte per aver modo di catalogare gli strumenti musicali che mette in mostra. Alcuni, poi, li ho rifatti cercando le giuste proporzioni» dichiara con orgoglio mostrando gli strumenti in vetrina, nella “Mostra degli strumenti antichi e della liuteria” allestita all’interno della Cripta di San Rufino appositamente per i “Concerti di Natale”.
«Vedi, nella costruzione il primo aiuto mi è venuto dal musicista Adolfo Broegg, dei Micrologus. I primi liuti li ho realizzati proprio per lui, insieme a lui, procedendo per errori e scoperte. Per la ribeca e la viella, antenati di violino e viola, ho invece lavorato insieme a Gabriele Russo, sempre dei Micrologus. Non suonando strumenti ad arco la necessità di affidarsi ai consigli di un professionista, su pregi e difetti dello strumento, è indispensabile.

Da un punto di vista del “mestiere” devo dire che gli strumenti più difficili da realizzare sono il salterio e il liuto. Il salterio per la tensione enorme delle corde e la struttura robusta che richiede, che non deve essere mai troppa, altrimenti non suona – ne sa qualcosa Massimiliano Dragoni insieme ad Anonima Frottolisti, con tutti gli esperimenti che abbiamo compiuto; il liuto per la necessaria leggerezza: è facile che si rompa nella lavorazione».

Vincenzo Cipriani, il Maestro, come molti lo chiamano, forse non avrà fondato una scuola di liuteria ad Assisi ma di consigli ne ha dati non pochi, ispirati dal suo amore per il mestiere e da una straordinaria generosità. Come racconta Luca Piccioni, musicista professionista e allo stesso tempo liutaio, docente dell’Accademia e mente e braccio di tante iniziative firmate Resonars:
«La mia passione per la liuteria? Forse è nata perché non potevo comprarmi uno strumento!». Sorride Luca, come il suo maestro, ricordando i suoi esordi sul banco degli attrezzi ed anche se continua con un «Ma no, scherzo», lo scherzo si fa subito memoria.


Era uno studente di Conservatorio, Luca, e aveva bisogno di una chitarra da concerto per affrontare il diploma. Una spesa impegnativa per uno studente che per poter studiare al Conservatorio lavorava part-time. «Lavoravo da un amico restauratore. Lì ho imparato a usare la materia legno. Suonavo e andavo da lui a restaurare mobili, anche antichi. Fatto sta che, dato che il mio primo insegnante di chitarra era un liutaio, e l’ho visto costruire gli strumenti mentre mi faceva lezione, dall’esigenza di comprare una chitarra classica – perché ero all’ottavo anno di Conservatorio e il modello da studio che avevo, comprato con i soldi messi da parte con il lavoro part-time, non bastava – mi sono detto: “Perché non tornare dal mio vecchio maestro e, visto che posso usufruire di una bottega, provare a costruirmene una?”. Il mio maestro era Vincenzo Cipriani e, con disponibilità, mi ha insegnato a costruire una chitarra. Quella chitarra è stata la chitarra con cui mi sono diplomato in chitarra classica».


Nel frattempo, insieme al crescere della passione per la musica antica, Luca pone a Vincenzo una nuova richiesta: «M’insegneresti a costruire un liuto?». Vincenzo non si tira indietro e Luca ne costruisce non uno ma due.
«Belli! – esclama con un sorriso. – Uno me lo sono tenuto e uno l’ho dato ad un ragazzino che studiava con me chitarra e che ha continuato a suonarlo, ad Assisi, grazie alla rievocazione storica del Calendimaggio».
Prosegue l’apprendistato e arriva la ricerca perché dire “liuto” è facile ma un liuto del Quattrocento non è un liuto del Cinquecento. Tra il primo e il secondo corre un secolo di storia! Un secolo di tecnica, di esigenze e di materiali, diversi.
«Il primo liuto che mi sono costruito è stato un liuto con il quale poter suonare tutto. Non avevo un’idea filologica. Ma, entrando nello specifico, per la musica del primo Cinquecento ci vuole un tipo di liuto, per quella del tardo Cinquecento ce ne vuole un altro. Così per il Quattrocento e via dicendo. È per questo che serve la ricerca, iconografica, nell’assenza degli originali, o studiando gli originali stessi se presenti. Dal Cinquecento in su se ne trovano, nei musei, ed è possibile anche reperire disegni in scala 1:1. Del Medioevo non è rimasto praticamente nulla di originale».
 

Colpa della materia prima, deperibile. Una materia che in gran parte Luca riesce a trovare in Umbria, nella sua terra. Privilegiati gli alberi da frutto. Oltre al cipresso utilizzato per i gusci. Per la tavola armonica, invece, occorrendo in gran parte l’abete della Val di Fiemme, è necessaria l’ordinazione da dei rivenditori specializzati.
«Il legno! Un liutaio diventa accumulatore seriale di legni. Li taglia e poi, anche se non sa cosa farsene, li tiene pensando che forse, fra vent’anni, potranno tornargli utili». Scuote la testa, Luca, pensando ai legni della sua terra e poi continua: «Vent’anni sembrano tanti ma passano in fretta. Tempo fa, ad esempio, a casa mia abbiamo dovuto tagliare un cipresso perché era malato. Una parte del tronco era buona e l’ho presa anche se al momento non sapevo cosa farci. Lo sto cominciando ad utilizzare adesso ed è una grande risorsa. Quindi mi capita di guardarmi intorno e se vedo un albero che necessita di un taglio mi ritrovo a pensare: “Beh, non sarebbe male…”. Nei momenti delle potature vado sempre a cercare tagli interessanti».


Ha appena finito il suo racconto, e ci stiamo per salutare, quando Luca ferma il suo saluto per aprire un nuovo discorso, tirandomi a sé come per mettermi a parte di un bellissimo segreto:
«Un’esperienza tipicamente “antica” del percorso che facciamo in Accademia è la seguente. Per raccontartela inizierò dal pianista. Un pianista, oggi, può sedersi ad un pianoforte, essere un concertista, e non sapere che cosa accade dentro al suo strumento. Ce ne sono. Lo strumento è scordato? Chiamo l’accordatore. Esiste la professione dell’accordatore del pianoforte. Una volta il rapporto con il proprio strumento, invece, era molto più vissuto. Erano strumenti leggeri, delicati. Pensa a un clavicembalo. Non è dotato di un piano di ghisa che lo tiene immobile. Era sufficiente aprire la finestra in una giornata fredda e il guaio era fatto: il clavicembalo si scordava. Il musicista aveva dunque necessità di essere anche il “liutaio” del proprio strumento. Lo conosceva. Lo curava. Lo manteneva nelle migliori condizioni possibili. Quando i miei studenti vengono a fare lezione dentro la mia bottega noto differenza nella loro curiosità, nella loro percezione della lezione, rispetto alla lezione in classe. C’è un liuto in costruzione. Vedono il dentro dello strumento che suonano. Percepiscono la storia, la manualità, l’artigianalità che sta dietro al loro strumento. Ed è un’esperienza formativa completa.


D’altronde il lavoro manuale, secondo me, è arricchente per chi lo fa ma anche per chi lo vede. Quante volte è capitato, a ciascuno di noi, di restare ipnotizzati di fronte a qualcuno che lavora con le mani. È l’umanità che si mostra nella sua abilità primaria. Soprattutto quando la manualità genera qualcosa che va oltre, come uno strumento musicale. Un tramite, un intermediario tra l’uomo e la musica e insieme l’estensione delle abilità umane, materiali e immateriali.


La costruzione di uno strumento musicale è così un piccolo viaggio che non è mai, mai perfetto. Io mi rendo conto d’arrivare alla fine e, pur avendo cercato la perfezione, di dirmi: “Questo avrei potuto farlo meglio”. Anche una piccola cosa. Se guardo i miei primi strumenti inorridisco. Adesso cerco la perfezione ma ti dirò una cosa interessante: molti fanno le rose del liuto con il laser. Bene. Il laser ti può rendere la rosa del liuto perfetta ma è l’imperfezione umana che dà valore a quella rosa. Anche se tu, come costruttore, non la ricerchi. Io non voglio le cose imperfette. Io cerco di costruire nel modo più perfetto possibile, se si può dire. Eppure l’assurdo è che, se il mio lavoro diventasse veramente perfetto, perfetto come il lavoro che può fare una macchina, non varrebbe più niente». Qui Luca fa una pausa, osservando la mia reazione. Poi sbatte le mani: «È incredibile! Ed è molto umano, è quell’equilibrio che l’uomo ricerca e che si manifesta anche nelle cose che produce! È la ricerca dell’equilibrio che affascina gli altri uomini. Non la sua perfezione».

 

Sarà per lo schiocco delle mani, sarà per la simpatia di Luca, tre musiciste si uniscono a noi, tra le tre una sua allieva. Sono Matilde Becherini, Argentina Becchetti e Giulia Testi. Dalla bottega, che diventa luogo di lezione e d’incontro, eccomi dunque in Accademia nel momento formativo completo, dall’aula alla sala da concerto, che ha condotto alcuni studenti della scuola assisana a far parte del progetto Ludus Danielis.
Racconta Matilde: «L’Accademia è un luogo dove si fa musica diversa dal solito, come non si fa in altri posti. Trovo che sia un’esperienza particolare e divertente. Soprattutto per come i nostri docenti interpretano il “fare lezione”.


Ho iniziato a fare musica con il Calendimaggio. Prima ho studiato il violino ma poi la passione per la musica antica ha avuto il sopravvento».
Argentina annuisce con decisione: «Sicuramente è una realtà diversa. Come ha detto Matilde non è facile vedere ragazzi così giovani, bambini dai 3 anni, con la passione per la musica antica. Spesso cominciano suonando strumenti moderni ma poi passano prestissimo a quelli antichi. È un luogo di gioia dove è spontaneo il formarsi di gruppi. E insieme il formarsi delle persone, musicalmente ma non solo. Per cui… come dire… la consiglio a tutti!


Io, come Matilde e come molti dell’Accademia, sono una polistrumentista. Il mio interesse per la musica è partito da mio padre, tra i docenti di Resonars. Anch’io sono passata dagli strumenti moderni per seguire poi le sue orme, prima con la viella e poi con la viola da gamba. Al momento sto studiando alla scuola di musica di Fiesole ma questo non mi impedisce di partecipare al Calendimaggio. La musica antica m’interessa anche per la ricerca e lo studio che comporta, ben al di là della tecnica di uno strumento, pur necessaria».
Giulia, tra le tre, è forse quella con più esperienza ma ha lo stesso sorriso mentre parla della sua scuola: «Io dentro l’Accademia ci sono cresciuta. Ho iniziato a suonare che l’Accademia ancora non c’era. Quindi sono nata con l’Accademia. È una realtà che riesce ad avvicinare alla musica con modalità completamente diverse dalle strutture classiche come i Conservatori. Ho fatto due anni di Conservatorio e posso dire che l’approccio è completamente diverso. Potrei dire che frequentare l’Accademia è come frequentare una classe delle scuole elementari dove conosci tutti e crei un bel rapporto con tutti, insegnanti compresi. L’idea poi di poter formare gruppi interni alla scuola non è da sottovalutare. Ci permette d’uscire dall’ambiente accademico, fare concerti, esperienze e iniziare a vedere il mondo che c’è fuori. Tutto quel lato della musica che non è più soltanto studio ma è già lavoro.
Ho iniziato a fare musica per il piacere di cantare, a tutti i costi. Facevo la terza elementare quando mio padre mi disse: “Vai. Prova. Prendi il liuto perché è simile alla chitarra così ti fai una cantata con gli amici”».

Accademia come luogo di gioia e divertimento. I racconti sono unanimi. Con un punto di forza nei 27 corsi – canto, canto gregoriano, flauto con tamburo, flauto dritto, traversa e flauto doppio, flauto barocco, bombarda, cornamusa, organetto, tromba naturale e tromba a tirarsi, trombone rinascimentale, tamburi a battenti, tumburi a cornice e metallofoni antichi, viella e ribeca, viola da gamba, symphonia e ghironda, liuto e vihuela da mano, chitarra rinascimentale e barocca, danza antica, danza popolare – e negli oltre cento iscritti, per l’anno accademico 2016/17, tra allievi, studenti dei laboratori propedeutici nelle scuole e iscritti alle master class come quella, di alcuni giorni, che ha portato alla messiscena del Ludus Danielis.

Non c’è dubbio ma la curiosità è ormai tale che non potrei concludere questo articolo trascurando proprio il racconto del Ludus Danielis, quest’opera medievale che, a distanza di quasi mille anni, sembra scolpire, in maniera stupefacente, il circolo virtuoso del percorso odierno nella musica umbra e assisana compiuto dall’Accademia Resonars.
Ne parlo con Massimiliano Dragoni, tra i docenti e fondatori dell’Accademia e dell’Associazione Ritmi, musicista, musicologo e filosofo, una tra i principali protagonisti italiani, e non solo, di tutte le forme espressive collegate alla musica antica. Oltre ad essere il principale artefice del progetto Ludus Danielis.


«Il Ludus Danielis può essere considerata una delle prime opere. Quando si parla di opera nella storia della musica spesso si dice: “L’opera nasce nel Settecento”; oppure, altra cosa che troviamo spesso scritta: “L’opera nasce con Monteverdi”. Sintetizzando: i manuali riportano una nascita dell’opera all’interno del repertorio tardo rinascimentale e barocco. In verità l’opera nasce molto prima. D’altronde l’opera, in quanto tale, è un termine generico. Prende molti campi. Te lo dirò nel modo più semplice possibile: l’opera nasce come esigenza di mettere insieme teatralità, testo, musica e costumi, in qualche caso, finalizzati al racconto di una storia. Ed ecco che il Ludus Daniel è un’opera!».
Una delle prime, come afferma con entusiasmo Massimiliano, scritta completamente in modo musicale, con interventi testuali, in latino, e sporadici in lingua d’oc e d’oïl. Ma perché Ludus?
«“Ludus” è la traduzione di “gioco”. È il “gioco di Daniele”. “Gioco” come “play” nelle lingue anglosassoni, ovvero “suonare Daniele”, “raccontare Daniele”, “parliamo di Daniele”. Ma Daniele chi è? È uno dei profeti più importanti delle storie dell’Antico Testamento e quindi delle Sacre Scritture».


Il gioco racconta di come Daniele sia chiamato da Re Balthasar alla sua corte su consiglio dei maghi e dei satrapi. Daniele è un profeta, è capace d’interpretare ciò che gli altri non sanno leggere, e il Re ne ha bisogno. Perché? Perché improvvisamente nella reggia di Re Balthasar sono comparse su un muro tre parole, indicate da una mano: “Thechel”, “Phares” e “Mane”. Qual è il loro significato? Daniele non ha dubbi e svela al Re le ragioni della fine del suo impero e il nome di chi sarà il prossimo Imperatore: Dario. Dario che, sopraggiunto, su istigazione dei propri cortigiani, non esiterà a condannare Daniele alla fossa dei leoni. La famosa fossa dei leoni delle storie mitologiche legate alle Sacre Scritture.
Massimiliano non lesina spiegazioni: «I Ludus venivano fatti per essere cantati la notte di Natale, nella sera del 24 dicembre. Riempivano l’attesa della mezzanotte. Probabilmente sono la risultanza di una tradizione più antica, arcaica, pagana, in cui si raccontavano storie per arrivare allo scoccare del 25 dicembre. Ma qual è la ragione per cui improvvisamente – come è tipico dei racconti medievali che hanno a che fare con il mondo religioso -, in una storia che non parla del Natale, irrompe un angelo?». Attendo impaziente la risposta che Massimiliano non tarda a darmi: «Intanto perché è uno scritto del XII secolo, uno dei più arcaici con tutta la musica e tutte le parole ancora conservate. Ma l’aspetto più interessante è questo: nel momento in cui arriva l’angelo la storia si capovolge ed il soggetto non è più Daniele ma il Natale con l’angelo che dice: “Attenzione, Daniele riesce a salvarsi dai leoni perché è la notte di Natale”. Un altro angelo, parlando con Abacùc, altro personaggio delle Sacre Scritture, farà così capire che Daniele è salvo perché finalmente è arrivato Natale annunciando ai cantori di poter cantare il Te Deum Laudamus».


Al di là della trama vi sono ragioni strettamente musicali che hanno ispirato l’Accademia nell’affrontare il progetto e la sua realizzazione?
«Certamente – risponde Massimiliano. – La scrittura musicale appartenente a questo manoscritto – un codex unico che esiste solo in una copia, e siamo fortunati nell’averne ritrovata almeno una – è stata suonata da molti gruppi negli anni ’60 e ’70 del Novecento. Erano gruppi pionieri di quella che sarebbe stata la ricerca sulla musica antica in Italia e in Europa. Poi il manoscritto è stato dimenticato. La cosa interessante è che ha una scrittura musicale amensurale, ovvero composta da note dello stesso valore. Un susseguirsi ininterrotto di note uguali. C’era dunque bisogno di dargli un ritmo. Ma come? Come gli antichi, praticamente. In tutti i manoscritti di teoria musicale del Millecento, del Duecento e così via, ma già a partire dai primi manoscritti di teoria musicale del III e IV secolo d. C., nelle prime pagine sta scritto: “Che giudice sia la musica ma che regina sia la dialettica e la retorica”. Significa che la grammatica vince su tutto. Che dalla grammatica nasce la matematica. E noi, seguendo questo principio, abbiamo letto tutti insieme, durante il laboratorio, la parte in latino segnalandone gli accenti e dando così una ritmicità, un impulso alla notazione musicale».

A concerto concluso il plauso del pubblico è spontaneo e fragoroso. Dall’Accademia al palcoscenico, passando per la bottega artigiana, l’impressione è che per una sera protagonista del pulsare di un Chiostro sia stata la storia stessa di un territorio, dalle origini remote ma con l’esperienza negli occhi e nella memoria degli ultimi sessanta anni di cammino. Una storia per nulla stanca, come la si potrebbe immaginare senza sfogliare i libri che la raccontano. Energica, invero. E sorridente. Ammiccante al suo stesso domani. Una storia pervasa di passato che, in quella metamorfosi del tempo che solo l’immaginazione umana può rappresentare, tingendola d’arte, racconta nel compiersi il proprio futuro.

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