MARCHI & BREVETTI

31 marzo 2012

Segni distintivi, contraffazione e pezzi di ricambio non originali: un’annosa questione risolta dalla Suprema Corte

di Giuseppe Caforio

Una questione giuridica con enormi riflessi economici che si trascina da tempo è stata recentemente risolta dalla Corte di Cassazione. Ci si riferisce al problema della produzione di pezzi di ricambio non originali con la riproduzione dei segni distintivi della casa madre. Il caso particolare era partito proprio da Perugia, dove la Procura della repubblica aveva avviato un procedimento penale con sequestro in tutta Italia dei copri cerchi di auto di marchi noti, prodotti da imprese terze. La ipotesi accusatoria prevedeva la contestazione del reato di contraffazione di segni distintivi che i produttori di pezzi non originali avrebbero effettuato nella produzione di beni dichiarati espressamente non originali, ma riportanti il marchio del modello di auto a cui si riferiscono. Il procedimento penale ipotizzava i reati di cui agli artt. 81, 648 e 474 c.p. per l’acquisto e, comunque, la ricezione di copri-cerchi per pneumatici di autovetture di provenienza delittuosa siccome riportanti il marchio di note case automobilistiche contraffatto, copri- cerchi che, altresì, venivano detenuti per la vendita e posti in vendita. Le ipotizzate condotte fanno sostanzialmente riferimento al fenomeno della produzione di accessori auto non originali, in particolare copri-cerchi, riproducenti quelli originali delle case automobilistiche e con essi intercambiabili. Al riguardo, preme da subito evidenziare come tali copri-cerchi siano prodotti da importanti aziende operanti nel settore da decenni ed alle cui dipendenze vi sono centinaia di operai. Non si tratta cioè di un fenomeno clandestino di contraffazione di prodotti, condotto in laboratori occultati e da pochi soggetti improvvisati, ma si tratta invero di un’attività esistente da decenni e che annovera molte aziende regolari, che operano su tutto il territorio nazionale e anche in Umbria. Quello degli accessori e ricambi non originali è un settore esistente da decenni nel panorama italiano, che conta molte aziende ed impiega centinaia di dipendenti. In realtà, il problema della legittimità di tali produzioni, per la verità postosi solo recentemente, è legato ad una interpretazione restrittiva (e da ritenersi non corretta) della normativa, italiana e comunitaria, che disciplina tali attività. In materia di pezzi di ricambio per autovetture è d’obbligo partire dal principio sancito dall’art. 241 del D. lgs. 10.02.2005 n. 30, c.d. Codice della Proprietà Industriale, ai sensi del quale “...i diritti esclusivi sui componenti di un prodotto complesso non possono essere fatti valere per impedire la fabbricazione e la vendita dei componenti stessi per la riparazione del prodotto complesso al fine di ripristinare l’aspetto originario...”. Si tratta di una disposizione imposta dal principio della libera concorrenza e della tutela del consumatore, volto in maniera più che chiara a permettere e tutelare la produzione e l’offerta sul mercato di prodotti alternativi a quelli originali per la riparazione di autoveicoli e il ripristino del loro aspetto originario, consentendo al consumatore di poter scegliere prodotti alternativi agli originali e con prezzi normalmente inferiori agli stessi. È bene notare fin da subito come tale normativa non riguardi soltanto dei pezzi funzionali dell’autovettura (come i componenti meccanici), ma anche pezzi di carrozzeria ed accessori. In effetti, la norma fa riferimento al ripristino dell’aspetto originario, ricomprendendo quindi anche a componenti esteriori del mezzo, con funzioni estetiche e di design delle vetture. Consapevole degli inevitabili contrasti tra tale riconosciuta facoltà di utilizzo e la necessità dei titolari di marchi di evitare indebiti utilizzi degli stessi, il legislatore, recependo una normativa comunitaria, con il Decreto legislativo 10.02.2005, n. 30, c.d. Codice della proprietà industriale, ha espressamente statuito come i diritti di marchio d’impresa registrato, tra gli altri casi, non permettono al titolare di vietare ai terzi l’uso nell’attività economica del marchio d’impresa se esso è necessario per indicare la destinazione di un prodotto, in particolare come accessori o pezzi di ricambio, purché l’uso sia conforme ai principi della correttezza professionale. Con la stessa disposizione è stato altresì specificato come comunque non sia consentito usare il marchio in modo da ingenerare un rischio di confusione sul mercato con altri segni conosciuti come distintivi di imprese, prodotti o servizi altrui, o da indurre comunque in inganno il pubblico, in particolare circa la natura, qualità o provenienza dei prodotti o servizi, a causa del modo e del contesto in cui viene utilizzato, o da ledere un altrui diritto di autore, di proprietà industriale, o altro diritto esclusivo di terzi Accanto ai diritti inerenti alla titolarità del marchio, soprattutto nello specifico settore dei pezzi di ricambio, la normativa si preoccupa di tutelare anche altri interessi con essi confliggenti, quali quelli sopra descritti di garanzia di libera concorrenza e tutela del consumatore (con l’opportunità di mettere a disposizione sul mercato pezzi alternativi agli originali ad un prezzo naturalmente inferiore). Ciò si è inteso garantire con il citato art. 21 del C.P.I., ponendo un limite ai diritti di esclusiva spettanti al titolare del marchio registrato, il quale non può impedire ai terzi l’uso del suddetto marchio per indicare la destinazione di un accessorio o pezzo di ricambio. Come è ovvio che sia, tale facoltà deve necessariamente essere subordinata a ben precise condizioni, quali la necessità di tale utilizzo al fine di descrivere la destinazione del prodotto e la conformità di tale utilizzo ai principi della correttezza professionale. La riproduzione del marchio altrui nel pezzo non originale non deve perciò eccedere la funzione meramente descrittiva. In sostanza, ciò che l’art. 21 del C.P.I consente e considera lecito è un uso atipico del marchio, finalizzato esclusivamente ad indicare la destinazione del prodotto. La facoltà concessa dall’art. 21 viene quindi a cessare nel momento in cui l’uso di un marchio altrui verrebbe a creare confusione con i prodotti originali, ipotesi nella quale tornerebbe inevitabilmente a prevalere il regime di esclusiva accordato dalla legge al titolare del marchio. In tale necessità di evitare confusione con i prodotti originali si sostanzia il rispetto dei principi della correttezza professionale imposto dall’art. 21 C.P.I. In tale senso si è orientata la giurisprudenza: “...L`uso del marchio originale da parte del terzo - non in funzione tipica (distintiva), bensi` al solo fine di rendere noto al consumatore che il proprio prodotto ha una destinazione strumentale o comunque collegata al prodotto al cui marchio si fa riferimento - È lecito solo quando risultino conciliati l`interesse del terzo stesso a rendere nota la destinazione del suo prodotto con il rispetto dell`interesse del titolare del marchio alla distinzione del prodotto registrato. Ne consegue che al fabbricante di pezzi di ricambio per automobili È riconosciuta la facolta` di uso del marchio altrui, quando cio` sia oggettivamente necessario per descrivere la destinazione del suo prodotto, ma nei limiti in cui il concreto esercizio di tale diritto non ingeneri dubbi sul fatto che quello cosi` immesso in commercio È ricambio non originale, la cui fabbricazione non È cioÈ riferibile al titolare del marchio...” (Cass. Civ. 10.01.2000, n. 144). In tale ottica è stata ritenuta sussistere una contraffazione del marchio nell’ipotesi di confezioni dei beni destinati alla commercializzazione che non presentavano, accanto al segno distintivo del titolare del marchio, alcuna indicazione ulteriore idonea a rappresentarne la provenienza da un’impresa diversa o, quantomeno, volta a specificare la loro funzione di “pezzo di ricambio” o di “accessorio” rispetto ai prodotti cui il marchio faceva riferimento (Crf. Tribunale di Roma, 22.01.2008, n. 1526). In buona sostanza, in virtù della vigente normativa e del principio della correttezza professionale ivi contenuto, il discrimine tra fattispecie penalmente rilevanti e condotte lecite va individuato senza dubbi nell’uso necessario ed esclusivo del marchio altrui per indicare la destinazione del pezzo di ricambio, con una modalità, conformemente alla correttezza professionale, che non possa creare confusione con i prodotti originali e quindi che non possa in alcun modo ingenerare nei consumatori la convinzione che i prodotti stessi provengano dal titolare del marchio. Nel particolare caso dei copriruota, la riproduzione del marchio assume una funzione puramente estetica e descrittiva, destinata a poter fornire al consumatore un prodotto si alternativo all’originale, ma altresì utilizzabile e idoneo a “ripristinare” quell’aspetto originario al quale fa espresso riferimento l’art. 21 del C.P.I. È in effetti sin troppo evidente che il copriruota debba essere riprodotto fedelmente in tutti i particolari per poter essere utilizzato ed avere un’utilità economica. E tale fedele riproduzione non può ovviamente che comprendere anche la riproduzione del marchio. Non v’è in effetti chi non veda come il marchio apposto dalle stesse case automobilistiche sui copriruota non abbia certo una funzione distintiva del prodotto (o meglio, del “pezzo”), ma una funzione estetica diretta ad integrare lo stile e la bellezza del copriruota. Un copriruota che non riproducesse in maniera totale il pezzo originale da sostituire non avrebbe alcuna utilità per il consumatore e sarebbe conseguentemente incommerciabile. Ciò, come detto nel rispetto dell’esigenza di evitare confusione con i prodotti originali. Per escludere la stessa ipotesi penale è sufficiente che le stesse confezioni non riportino alcun logo delle case automobilistiche, ma al contrario deve essere posta in primaria evidenza la dicitura “NON ORIGINALE”. A ciò si aggiungano il prezzo, che ovviamente deve essere sensibilmente inferiore a quello dei copriruota originali, elemento che permette anche a soggetti poco esperti di avere consapevolezza che si tratta di prodotti non originali. Ed anzi, proprio il minor prezzo è il motivo determinante di un consumatore ad acquistare un prodotto non originale piuttosto che uno originale. In sostanza l’uso del marchio altrui nel settore dei c.d. “ricambi paralleli”, è assolutamente legittimo quando ha una finalità descrittiva e perciò conforme alla correttezza professionale. Tale posizione aveva trovato in giurisprudenza valutazioni difformi, nei diversi tribunali italiani, al punto che si era ingenerata una notevole confusione giuridica, che aveva indotto molte imprese ad abbandonare il settore dei pezzi di ricambi non originali. Sul punto è intervenuta recentissimamente la Corte di Cassazione che con sentenza n. 1629/2011, che ha fissato il principio di diritto che statuisce : “ai fini dell’applicazione degli articoli 473 e 474 c.p., la contraffazione penalmente sanzionabile è solo quella che attiene al marchio nella sua funzione distintiva.” Tradotto nel linguaggio comune, il principio della Suprema Corte si traduce nel rendere libero e legittimo il mercato dei pezzi di ricambi paralleli, anche quando riportano il marchio della casa madre, purchè tale segno distintivo abbia solo funzione descrittiva e non ingeneri confusione, inducendo in errore il consumatore, che invece deve essere edotto in ogni modo, che si tratta di pezzi non originali.