MARCHI & BREVETTI

31 dicembre 2012

La tutela giuridica del MADE ITALY contro il Mad in Italy- Un caso emblematico

di Giuseppe Caforio

 

La tutela del Made in Italy è argomento attualissimo che spinge le istituzioni italiane a rafforzarne la tutela, in primis sul piano normativo e poi su quello commerciale, convinti della forza penetrante sul mercato mondiale di questo segno che costituisce un valore aggiunto.

Di ciò ne sono consapevoli anche imprenditori creativi che cercano soluzioni giuridiche border-line per appropriarsi del vantaggio di tale segno e nel contempo abbattere i costi, producendo all’estero.

Proprio su questo tema la giurisprudenza di merito si è occupata recentemente di un singolare caso, molto emblematico, avente ad oggetto l’uso del marchio Mad (in inglese: pazzo) in Italy per prodotti  realizzati in Cina.

Sulla scorta di questo singolare caso, il Tribunale di merito di Torino, ha elaborato alcune interessanti conclusioni, riassunte nella seguente massima giurisprudenziale:

Costituisce concorrenza sleale per violazione dei principî di correttezza professionale l’utilizzo, come marchio di fatto per occhiali, dell’espressione «Mad in Italy» (pazzo in Italia), riprodotta al centro del tricolore italiano, accompagnata sì da ulteriori scritte esplicative, ma pressoché illeggibili per le dimensioni ridotte, e senza l’indicazione che si tratta della denominazione sociale dell’impresa titolare, versandosi in un’ipotesi di segno decettivo, in quanto evocante la diversa indicazione «Made in Italy» (prodotto in Italia), per prodotti in realtà provenienti dalla Cina, con conseguente pregiudizio per l’attività dei concorrenti.

Il caso presenta aspetti così interessanti che rendono opportuno pubblicare di seguito integralmente la sentenza:

“ Osserva. — 1. - È documentato in atti che i ricorrenti sono, rispettivamente, titolare e licenziataria del marchio italiano VEDO BENE registrato in data 23 novembre 2010 a seguito di domanda depositata il 29 maggio 2009 per contrassegnare «apparecchi e strumenti ottici; lenti a contatto, di correzione oftalmiche e per occhiale; occhiali e montature di occhiali; occhiali da vista, da sole, per lo sport; astucci e custodie e lenti a contatto», marchio che viene concretamente usato anche per contrassegnare occhiali premontati da lettura. È inoltre documentato che anche la società resistente commercializza e pubblicizza su riviste e siti Internet, oltre che mediante materiale pubblicitario distribuito ai dettaglianti e nelle fiere di settore, occhiali premontati a marchio VEDOBENE, registrato in epoca successiva, e che ha inoltre predisposto il sito <www.vedobene.it> per promuovere la sua collezione di occhiali premontati con il suddetto marchio.

 Il segno della resistente presenta alcune differenze grafiche rispetto a quello di parte ricorrente che comunque, ad avviso del giudice designato, non potrebbero essere ritenute sufficienti ad escludere l’operatività dell’art. 20, lett. b), cod. proprietà industriale attesa l’indiscussa identità fonetica dei marchi a confronto.

 Sennonché, anche in questa sede sommaria, occorre porsi il problema della validità del segno (non ai fini di dichiararne la nullità perché non c’è e non ci può essere qui una domanda riconvenzionale in tal senso, ma) ai fini di valutare la sussistenza della lamentata contraffazione (e, conseguentemente, se possano essere emesse le misure cautelari richieste) che, per definizione, richiede di essere in presenza di un titolo valido.

 Nel caso di specie, sembra al giudice designato che il marchio dei ricorrenti — utilizzato, come si è detto, per contraddistinguere occhiali premontati da vista — sia meramente descrittivo delle caratteristiche e della funzione essenziale dei prodotti (che è appunto quella di vedere bene) e quindi privo dei requisiti di cui agli art. 7 e 13 cod. proprietà industriale.

 È peraltro del tutto irrilevante, ai fini che qui interessano, se il concorrente può in concreto differenziarsi ed utilizzare altre parole, diverse ma ugualmente adatte a descrivere le caratteristiche del prodotto.

 Infatti, come ha recentemente osservato la Corte di giustizia nella sentenza 10 marzo 2011, causa C-51/10 P (Foro it., 2011, IV, 238, relativa alla registrazione del segno «1000» come marchio per opuscoli, periodici e giornali, ritenuto descrittivo ed in contrasto con l’art. 7, n. 1, lett. c del regolamento (Cee) 40/94) — posto che l’interesse generale sotteso all’art. 7, n. 1, lett. c), del regolamento Ce 40/94 consiste nell’assicurare «che segni descrittivi di una o più caratteristiche dei prodotti o dei servizi per i quali è richiesta una registrazione come marchio possano essere liberamente utilizzati da tutti gli operatori economici che offrono simili prodotti o servizi» e che l’elenco di cui all’art. 7 cit. non è esaustivo, perché può essere presa in considerazione qualunque caratteristica dei prodotti o dei servizi — «è sufficiente che detto segno possa essere utilizzato a tal fine» ed «è ininfluente che esistano altri segni più usuali di quello di causa per designare le stesse caratteristiche dei prodotti o dei servizi».

 2. - Sotto il profilo dell’art. 2598, n. 1, c.c., parte ricorrente lamenta che gli occhiali premontati di Mad in Italy s.r.l. risultino del tutto identici (o assai simili) agli occhiali premontati da lettura a marchio ESPRESSOOCCHIALI di IOI per quanto concerne il disegno e le misure dell’occhiale, i colori, l’astuccio (anche come forma e come materiale in plastica trasparente), il bottone automatico per la chiusura e la cordicella interna.

 Ora, è pacifico che l’art. 2598, n. 1, c.c. tutela esclusivamente le forme che hanno efficacia individualizzante e differenziatrice del prodotto rispetto a prodotti dello stesso genere. Da ciò consegue che non possono essere tutelati, ai sensi della norma in discorso, quegli aspetti formali del prodotto imitato che, ancorché privi di carattere funzionale e necessario, siano comunemente adottati per un certo prodotto e non abbiano invece la funzione di diversificarlo dai prodotti dello stesso genere presenti sul mercato e quindi, al tempo stesso, di identificarlo come proveniente da una determinata impresa.

 Nel caso di specie, a ben vedere, parte ricorrente neppure sostiene che le forme, i colori, il materiale e gli altri aspetti sopra delineati dei suoi occhiali e dei relativi astucci abbiano la predetta efficacia individualizzante, limitandosi a sostenere che poiché si tratta di elementi privi di carattere funzionale e necessario sono perciò solo tutelabili ex art. 2598, n. 1, c.c. in quanto la controparte avrebbe potuto facilmente introdurre significative differenziazioni, idonee ad eliminare ogni rischio di confusione. Il che non è, per quanto sopra delineato, dovendosi inoltre escludere che i concorrenti abbiano un onere di differenziazione in relazione ad elementi di pubblico dominio, privi di carattere distintivo (Cass. 5437/08, id., 2008, I, 1880).

 In ogni caso, dalle produzioni di parte resistente risulta che vi sono da anni sul mercato prodotti di varie case, anche molto note, del tutto analoghi a quelli di IOI e di Mad in Italy, e quindi, quanto meno in questa sede sommaria, si deve escludere che le caratteristiche degli occhiali e degli astucci di IOI abbiano in concreto un qualche significato evocativo o rappresentativo idoneo a ricollegarli al suo produttore e quindi che siano tutelabili ai sensi dell’art. 2598, n. 1, c.c.

 Analoghe considerazioni devono essere fatte per l’imballaggio esterno del kit (scatola di cartone bianco, del tutto usuale nel commercio) e per gli espositori «ad un piano» e «a due piani».

 Gli espositori a uno o due piani non sono certo una novità nel commercio di piccoli oggetti presso tabaccherie, cartolerie e simili e comunque, quelli «a due piani» — che IOI rivendica di aver ideato per esporre i propri occhiali ai fini di meglio sfruttare il ridotto spazio esistente sui banchi delle tabaccherie — sono in concreto molto diversi da quelli di Mad in Italy, come riconosce anche parte ricorrente a pag. 20 del ricorso introduttivo.

 In particolare, sono totalmente diversi i colori (giallo l’uno e grigio rosso l’altro) e i segni distintivi che li contraddistinguono e li caratterizzano (ESPRESSOOCCHIALI quello della ricorrente e LOOKKIALE quello della resistente), mentre del tutto secondari e certamente non distintivi sono gli altri elementi evidenziati dai ricorrenti, quali la posizione del prezzo, dello specchio rettangolare, il grafico sulle aste flessibili ed il riferimento alla garanzia.

 3. - Parte ricorrente sottolinea anche che la resistente, abusando dell’espositore ideato ed utilizzato prima da IOI, si comporta scorrettamente sul mercato in quanto storna l’investimento di IOI sul proprio prodotto e impedisce illegittimamente di ricavarne i giusti benefici nell’immediato.

 Anche tale doglianza non risulta però fondata in quanto la ricorrente — che come per il marchio VEDO BENE, ha scelto di investire su elementi poco o nulla caratterizzanti — non può recuperare attraverso il ricorso al n. 3 dell’art. 2598 c.c. ciò che non può ottenere mediante il n. 1 della stessa norma.

 La concorrenza sleale infatti, nell’area di atipicità di cui all’art. 2598, n. 3, c.c., è integrata non solo dal compimento consapevole di un atto dannoso per il concorrente e vantaggioso per il soggetto agente, ma dall’utilizzazione di mezzi, diretti o indiretti, non conformi ai principî della correttezza professionale — che qui, per quanto esposto, non risultano sussistenti — e non è sufficiente che l’azione sia oggettivamente e soggettivamente tale da arrecare un vantaggio all’agente e un pregiudizio al concorrente. Diversamente opinando, infatti, ogni atto di concorrenza intenzionale ed efficace sarebbe sempre illecito e impedirebbe la libera iniziativa economica (diritto presidiato dall’art. 41 Cost.).

 Per gli stessi motivi e per le considerazioni già fatte, non risultano fondati neppure i richiami di parte ricorrente agli art. 21, 2° comma, cod. consumo e 13 del codice di autodisciplina della comunicazione commerciale, basati — il primo — sull’asserita imitazione servile dell’«intera formula ideata ed attuata da IOI presso le tabaccherie e, in particolare modo, il marchio VEDO BENE, gli occhiali, gli astucci e la forma degli espositori» e — il secondo — sulla circostanza che Mad in Italy pubblicizza, come IOI, gli occhiali premontati da lettura tramite il medesimo canale distributivo, cioè le tabaccherie, trattandosi, oltretutto, di una formula commerciale «inventata», almeno dal 2006, non da IOI ma da altra azienda (doc. n. 16 di parte resistente).

 4. - Sempre sotto il profilo dell’art. 2598, n. 3, c.c., parte ricorrente porta all’attenzione del tribunale il fatto che la società resistente utilizza la propria denominazione sociale come marchio di fatto, senza accompagnarla con la sigla s.r.l. e giocando con l’assonanza con la frase inglese «made in Italy» (fatto in Italia); il tutto aggravato dal fatto che la scritta «mad in Italy» campeggia al centro di una bandiera italiana, mentre le scritte «una fabbrica di idee» o «Pissasco (TO)» o «distribuito da» sono talmente piccole da essere praticamente illeggibili.

 Il fatto è incontroverso (e la comunicazione non solo ai grossisti ma anche ai consumatori è provata dai doc. da n. 61 a n. 64 e n. 68 del fascicolo della ricorrente) e parte resistente si difende sostenendo che si tratta di un ironico gioco di parole che significa «pazzo in Italia» (peraltro comune in quanto da una semplice ricerca su Google, inserendo la scritta «mad in Italy» si ottengono sessantaseimila risultati) e che queste storpiature sono oramai talmente note e diffuse (v., per esempio, il segno Eataly che conta sull’identità fonetica tra il marchio ed il nome della nostra nazione giocando sul significato del verbo to eat che in inglese significa mangiare) che non ingannano alcun consumatore.

 Tali difese non sembrano però conferenti. Infatti, se pure è vero che «mad» in inglese significa «pazzo», è anche vero che l’uso di detto termine (che si legge come la parola «made») insieme alle parole «in Italy» è fortemente decettivo perché può facilmente indurre il consumatore a ritenere che il prodotto contrassegnato da tale frase sia fatto in Italia (il che non è perché gli occhiali della resistente, come del resto quelli della ricorrente, sono fatti in Cina), ad attribuirgli un valore aggiunto che non ha e, in definitiva, a considerarlo decisivo al momento dell’acquisto.

 D’altra parte, che tale sia l’intenzione della resistente è provato — oltre che dal fatto che non compare la scritta «s.r.l.» e che le altre parole che accompagnano la dizione in discorso («una fabbrica di idee» o «Pissasco (TO)» o «distribuito da») sono praticamente illeggibili anche per un consumatore che non ha problemi di vista — anche dall’uso della bandiera italiana che contribuisce a far credere che la fabbricazione sia avvenuta in Italia.

 Ora, l’uso di un marchio ingannevole, vietato ai sensi dell’art. 14, 1° comma, lett. b), cod. proprietà industriale, costituisce un mezzo contrario alla correttezza professionale ex art. 2598, n. 3, c.c. e, attribuendo agli occhiali commercializzati dalla resistente un importante pregio che non hanno, è certamente idoneo a danneggiare il concorrente IOI.

 5. - Richiamando gli art. 10 c.c. e 96 l.d.a. i ricorrenti segnalano inoltre l’utilizzo fatto da Mad in Italy s.r.l. nella propria pubblicità dell’immagine del conte di Cavour (che indossa un paio di occhiali rosa smoking, accompagnato dagli slogan pubblicitari «Camillo Benso conte di Cavour indossa occhiali Mad in Italy» e «Gli occhiali che vestono l’Italia») e lamentano un abuso, in campo pubblicitario, del nome e dell’immagine del conte.

 La questione non è meglio specificata e neppure parte ricorrente sostiene che il messaggio possa essere potenzialmente ingannevole e che il consumatore possa credere che effettivamente il conte di Cavour indossasse tali occhiali.

 Peraltro, come eccepito dalla resistente, non essendo stato neppure dedotto che il sig. Martucci sia erede di Cavour o che i ricorrenti abbiano acquistato diritti sull’immagine del personaggio, ogni approfondimento è ultroneo.

 6. - I ricorrenti lamentano infine una serie di gravi illeciti che sarebbero stati posti in essere dalla resistente, illeciti tutti, secondo la prospettazione, da considerarsi condotte scorrette nei confronti di IOI che, invece, ha immesso in commercio i propri occhiali solo dopo averli sottoposti alle opportune verifiche per rispetto dei consumatori.

 In particolare, parte ricorrente segnala:

 a) presumibile pubblicità illecita degli occhiali premontati Mad in Italy in quanto sulla brochure pubblicitaria, sull’espositore e sul sito web della resistente non viene menzionata la preventiva autorizzazione del ministero della sanità di cui al d.leg. n. 46 del 1997, oltre al fatto che vengono utilizzate espressioni «inaccettabili» per dispositivi medici quali «lenti sferiche ULTRA sottili», CERTIFICATI e «montatura SUPERRESISTENTE»;

 b) presumibile non conformità degli occhiali della resistente alle norme del predetto decreto legislativo e mancanza della certificazione di CERTOTTICA, unico istituto italiano autorizzato ad hoc dal ministero della salute;

 c) Mad in Italy indica sul foglietto delle avvertenze che i propri occhiali sarebbero conformi Ce e alla norma «ISO 16034:2002 ed in accordo con la direttiva 93/42/EEC e successivi emendamenti con i d.m. 26 gennaio 2004», mentre sulla propria brochure precisa che sarebbero certificati «Ce prodotto conforme alla norma EN 14139:2033», in sostanza citando norme diverse per lo stesso prodotto;

 d) gli occhiali premontati da lettura non rispettano i parametri indicati nell’all. XII d.leg. n. 46 del 1997 perché la marcatura Ce non può essere inferiore a 5 mm mentre quella posta da Mad in Italy lo è.

 Ora, come è noto, la violazione di norme pubblicistiche può costituire concorrenza sleale ai sensi dell’art. 2598, n. 3, c.c. solo in quanto si concretizzi in una condotta che incide direttamente sul mercato e sull’attività dei concorrenti.

 Nel caso di specie, però, non sembra al giudice designato che i rilievi sub a), c) e d) — quand’anche corrispondessero al vero — abbiano o possano avere il riverbero concorrenziale che qui rileva. Per esempio, per quanto riguarda il rilievo sub d) — e prescindendo dal fatto che il d.leg. n. 46 del 1997 consente il dimezzamento della marcatura Ce per dispositivi molto piccoli come quelli oggetto di causa — non si capisce quale sarebbe il danno concorrenziale che subirebbe IOI per tale asserita violazione.

 Analogo discorso può essere fatto per le norme ISO e EN sub punto c), mentre per quanto riguarda il rilievo sub a), non solo anche Mad in Italy ha provveduto a registrare i suoi prodotti presso il ministero della sanità ma, per quanto risulta dagli atti di causa, anche IOI utilizza nella pubblicità dei propri occhiali le stesse espressioni che contesta alla resistente.

 Il rilievo sub b) sottintende invece che la resistente, non osservando la normativa vigente, risparmi sui costi necessari per legge per la tutela della salute dei consumatori e realizzi così un indebito vantaggio concorrenziale.

 Nel corso del procedimento, parte ricorrente ha prodotto dei rapporti di prova di CERTOTTICA che ha fatto effettuare sugli occhiali di Mad in Italy s.r.l. Da tale documentazione risulta che dei quattro modelli sottoposti ad esame, uno solo non avrebbe superato una singola prova, quella c.d. di «resistenza al sudore», evidenziando un distacco di vernice dopo una prova che simula circa due anni di uso dell’occhiale.

 Sembra davvero troppo poco per ritenere integrate le gravi violazioni normative prospettate da IOI e la conseguente concorrenza sleale che qui interessa.

 7. - In conclusione, di tutti i fatti lamentati da parte ricorrente, risulta fondato solo ciò che concerne l’uso come marchio di fatto della frase «Mad in Italy» che, come si è detto al precedente punto 4, è ingannevole e induce il consumatore a ritenere che il prodotto sia stato fatto in Italia mentre in realtà è stato fatto in Cina.

 Sussiste anche il periculum in mora in quanto l’utilizzo di «Mad in Italy» come marchio di fatto è suscettibile di indurre il consumatore a preferire per ciò solo l’occhiale della resistente con conseguente sviamento di clientela.

 Di conseguenza, deve essere emesso il provvedimento inibitorio richiesto da parte ricorrente al punto 4 delle conclusioni e fissata una penale di euro 250 per ogni violazione constatata successivamente alla notificazione del presente provvedimento.

 Trattandosi di concorrenza sleale ex art. 2598, n. 3, c.c., non sussistono invece i presupposti per l’emissione delle altre misure cautelari richieste da parte ricorrente in applicazione di norme del codice della proprietà industriale, né sussistono i presupposti per l’applicazione della cauzione richiesta da parte resistente.” ( Trib. Torino- Ordinanza  21.06.2011, anche su Foro Italiano)

La sentenza qui riprodotta appare condivisibile, in quanto pone un principio di tutela sia della concorrenza, che deve svolgersi lealmente fra imprenditori e sia dei consumatori, che non possono essere “adescati” con formule creative, che se apprezzabili sotto il profilo della genialità della trovata, vanno censurati in ambito giuridico, quando vanno a ledere i principi fondamentali della correttezza professionale a cui ogni operatore imprenditoriale ha l’obbligo di attenersi.