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30 giugno 2013

E dopo i cinesi, aspettiamo il ritorno degli americani

Intervista col neo rettore dell’Università per Stranieri, Giovanni Paciullo

di Claudio Sampaolo

Giovanni Paciullo è dal 24 aprile scorso il decimo rettore della storia dell’Università per stranieri di Perugia, nata nel 1921. Al successore di Astorre Lupattelli (in sella fino al 1944), Aldo Capitini (1944-1946), Carlo Sforza (1947-1953), Carlo Vischia (1953-1969), Salvatore Valitutti (1969- 1980), Ottavio Presciutti (1980-1982), Giorgio Spitella (1982-1995), Paola Bianchi De Vecchi (1995-2004) e Stefania Giannini, Obiettivo Impresa ha posto alcune domande sul futuro dell’Istituzione e sulle linee direttive del suo mandato triennale.

Lei vive in questo Ateneo da 33 anni, come direttore dell’Ufficio Studi prima e come docente di Diritto Privato poi, conoscendone, supponiamo, pregi e difetti. In questo lungo periodo, ha mai pensato “se comandassi io”…?

«Ho condiviso sin dal primo momento il “Governo” dell’Ateneo di Stefania Giannini, la mia è una linea di continuità, cercando naturalmente di adeguarla alle esigenze che mutano costantemente per una istituzione che si deve misurare con uno scenario internazionale. Per questo il mio lavoro si baserà su un metodo collegiale, coinvolgendo tutti nel processo decisionale, facendo in modo che poi le scelte risultino anche come una maturazione condivisa, presupposti indispensabili per poter mettere in campo un’iniziativa adeguata alle esigenze dell’Ateneo».

Nel suo programma si parla di scelte condivise non solo per la didattica ma anche per il bilancio…

 «Si, certo, a partire da una sua trasparenza assoluta, visto che spesso è di difficile lettura. L’ho notato in passato proprio confrontandomi con i miei colleghi che proprio per questo non si sono mai posti il problema di leggerlo perchè troppo difficile. Ma dovremmo sforzarci di farlo, associando un documento che renda più agevole questo compito, per sapere esattamente come vanno affrontate le spese, le loro motivazioni, in una situazione nella quale le risorse diminuiscono sempre più».

Cambierà qualcosa nella struttura del corpo insegnante?

«Certamente, ma tenendo presente che qui c’è una situazione particolare rispetto ad altri Atenei, dove esistono i ruoli di ricercatore, associato e ordinario. Alla Stranieri, invece, ci sono due fasce specificamente legate alla qualità: gli insegnanti di lingua, che si occupano dell’insegnamento della lingua e della cultura italiana, ma questo è un ruolo ad esaurimento, sono docenti anziani per i quali la Legge non prevede turn-over, che restano fino alla pensione e non saranno sostituiti. Poi ci sono i cosiddetti C.E.L. (collaboratori esperti linguistici) che sono le nuove risorse, anche loro impegnati nell’insegnamento di lingua e cultura che non possiamo considerare di serie B per il ruolo e l’importanza che hanno. Quindi, se vogliamo andare sullo specifico, si tratta di attuare una concreta rivalutazione di questa fascia di docenti ».

La sua Università ha avuto molti complimenti dal mondo culturale e accademico cinese per come i loro ragazzi hanno appreso l’italiano. Questo rapporto con la Cina si sta intensificando?

«Si tratta del risultato di importanti progetti nazionali, Marco Polo e Turandot, messi in campo in un periodo storico in cui gli studenti cinesi in Italia erano pochi, contrariamente al numero presente in Germania, in Inghilterra e in Francia. Un trend che scaturiva dal fatto che l’ambasciata italiana rilasciava il visto solo in presenza di una conoscenza dell’italiano almeno elementare. In Cina la cosa era molto contenuta, perciò eravamo davanti a decine di migliaia di cinesi presenti in Europa e solo qualche decina in Italia. Finché non si attivarono questi due progetti, capaci di aprire un canale che ha consentito l’ingresso di molti cinesi per iscriversi alle università italiane. Siccome però l’iscrizione presuppone la conoscenza della lingua italiana, per impararla qui ne sono venuti tanti e continuano a venire, noi dall’inizio dell’anno siamo arrivati ad un migliaio di iscritti».

Qual è la difficoltà maggiore di insegnare l’italiano ad una popolazione come quella cinese così lontana da noi?

 «Enorme, ma abbiamo degli insegnanti molto validi, tanto è vero che gli studenti cinesi, se si impegnano, sono in grado di parlare italiano dopo 6 mesi. Gli arabi, per fare un parallelo, ci riescono dopo 3 mesi. Sono metodi sperimentati in anni di insegnamento, cosa che ha reso questa Università all’avanguardia. Adesso, semmai, il problema è inverso: riequilibrare questa forte presenza di cinesi, visto che il rovescio della medaglia è costituito da un’apprezzabile riduzione delle altre nazionalità, Per questo mi sto soprattutto adoperando per aumentare le iscrizioni dagli Stati Uniti dove abbiamo costituito una fondazione che rappresenta l’Università per Stranieri anche in Sud America».

Quale Ateneo vi fa più concorrenza in Italia?

 «Direi Siena, l’altra Università per Stranieri, ma io sto cercando di fare un discorso comune con loro. La possibilità della diffusione della lingua e della cultura italiana è ampia, ci sarebbe posto per tutti, è inutile farsi la concorrenza. E poi il Rettore di Siena, Massimo Vedovelli, è di Ponte San Giovanni, con lui c’è un buonissimo rapporto personale che sto cercando di rendere sempre migliore. Penso che nel giro di qualche mese faremo un’iniziativa insieme per riflettere sul ruolo delle nostre due Università».

Dicevamo che lei è in questo Ateneo dal 1980, quindi ha vissuto tutta l’evoluzione della quale abbiamo parlato…

«Sono stato chiamato dall’allora Rettore, professor Ottavio Presciutti, in vista dell’anno Accademico 1980-81, essenzialmente come funzionario per dirigere l’Ufficio Studi, dove mi incaricò di mettere a punto dei programmi che dessero un offerta più ricca di contenuti. I master destinati agli stranieri partirono allora, uscendo quindi dal target dei soli corsi di italiano, per allargare lo spettro di offerta e fornire elementi per assecondare i potenziali di sviluppo dei paesi di provenienza».

A proposito di sviluppo, interscambi, economia. Questa rivista finisce essenzialmente in mano a chi si sporca le mani tutti i giorni muovendo le leve del mercato. Quale apporto può dare l’Università per Stranieri?

 «Sicuramente un grande contributo al sistema produttivo locale, assecondando i processi di internazionalizzazione (da non confondere con la delocalizzazione). Per poter fare ciò bisogna modulare profili professionali. Abbiamo fatto l’esperienza dei master, un’iniziativa post-laurea tarata sulla rimodulazione di alcuni profili professionali, come laureati in giurisprudenza, in economia, in discipline ingegneristiche, offrendo quegli elementi utili a supportare un processo di internazionalizzazione. Perché la piccola e media impresa ha difficoltà ad internazionalizzarsi, spostarsi, condividere con partner del luogo delle iniziative. In questo Ateneo si formano annualmente sia studenti italiani che studenti provenienti dalla sponda sud del Mediterraneo (dal Marocco alla Turchia), area di libero scambio fin dal Processo di Barcellona (1995). E poi facciamo in modo che chi viene qui possa essere messo in contatto con la realtà produttiva».

Si parla sempre, a livello istituzionale, di un rapporto molto più stretto tra Università per Stranieri, Università italiana, Accademia di Belle Arti e Conservatorio. A che punto siamo?

 «Buono. Stiamo per realizzare un coordinamento, per evitare di fare le stesse cose, razionalizzare gli interventi nel campo della formazione, pur mantenendo le nostre entità diverse. Penso anche ai servizi amministrativi ».

Proiettando il suo mandato in avanti, c’è un progetto particolarmente ambizioso che ha in testa?

 «Quello al quale tengo di più, in parte già realizzato, è fare dell’Università per stranieri il centro della città, perchè ultimamente è stata individuata come un corpo estraneo e forse anche carico di rischi. Ha delle potenzialità, deve essere considerata una risorsa per la sua capacità di attrarre presenze straniere e collocarle all’interno della vita cittadina e vorrei renderla tale. Un’altra importante iniziativa è farne non solo la sede di raccolta di studenti stranieri ma anche di docenti stranieri. L’anno scorso come direttore dell’alta formazione, ho fatto un’esperienza di una summer school che ha portato qui molti docenti di Harvard di area giuridica, che hanno tenuto oltre un mese di lezioni ad un gruppo di studenti italiani selezionati, offrendo loro un’enorme opportunità».

Quando dice che l’Università deve tornare ad essere un punto di riferimento cittadino, non c’è anche un problema di immagine legato alla piazza, all’Arco, a tutta questa zona?

 «Sì, noi questi problemi li abbiamo più volte denunciati, anzi ci siamo anche fatti carico di spese apprezzabili, circa 20.000 euro solo per le telecamere di sorveglianza. Si tratta certamente di un problema che incide negativamente sull’Università e abbiamo sollecitato una maggiore attenzione da parte delle istituzioni locali perché qui avvertiamo delle conseguenze che possono essere anche fortemente negative. Si potrebbe dare il via ad un importante progetto di pedonalizzazione di Piazza Grimana, firmato dagli architetti Bruno Salvatici e Daria Ripa Di Meana, che noi apprezziamo e sosteniamo, ma non solo perché funzionale all’Università, ma anche perché salverebbe Palazzo Gallenga, l’Arco Etrusco e la conservazione della città in uno dei suoi punti più espressivi. Ne ho parlato recentemente anche con Brunello Cucinelli, impegnato nel restauro dell’Arco Etrusco. Lui vede bene la soluzione della pedonalizzazione. Il problema, è che ci vogliono cinque milioni di euro».

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